Non ero pronta quando sei arrivato.
Avevo perso Oliver e niente avrebbe potuto sostituirlo. Desideravo un cane, ma era ancora troppo presto. Tu però avevi nove anni e avevi bisogno di una famiglia subito, così senza troppa convinzione ho detto sì.
Dopo qualche minuto in auto hai iniziato a renderti conto che qualcosa stava cambiando e avevi perso i tuoi riferimenti. Piangevi forte, probabilmente mi stavi chiedendo di portarti a casa. Io ti stavo portando a casa, solo che non sarebbe stata quella di prima. Volevo dirti che sarebbe stata anche meglio, che saresti stato bene, ma non potevo spiegartelo a parole.
Eri un estraneo. Avevi un colore diverso, Oliver era nero e tu biondo, d’oro in testa e sulle zampe e d’argento sulla schiena e sul pancino. Non ci conoscevamo, non ci capivamo. Cercavi di farti capire e facevi quel che potevi, coricandoti per terra a pancia all’aria per farti benvolere. Ma io sentivo la mancanza di Oliver e ti confesso che quando passeggiavo insieme a te i primi tempi distoglievo lo sguardo per immaginarmi che all’altro capo del guinzaglio ci fosse ancora lui. Non volevo nemmeno che dormissi nella mia stanza, ti avevo messo una brandina fuori e tu ubbidivi; ma durante la notte, mentre dormivo, ti coricavi sul pavimento ai piedi del mio letto e al mattino ti trovavo lì.
Poi una notte è scoppiato un temporale, quella cosa che ti faceva tanta paura. Sei saltato sul letto e ti sei rannicchiato addosso a me tremando. Ti ho accarezzato e ti ho detto che andava tutto bene, ti ho tenuto lì con me e tutto sommato mi è sembrato bello averti lì vicino. Così da quella volta il mio letto è stato anche il tuo.
Eri un camminatore. Facevamo belle e lunghe passeggiate insieme, e tu ogni giorno non vedevi l’ora. Quando mi attardavo col lavoro ti mettevi ad abbaiare rumorosamente e mi impedivi di continuare. A volte salivamo in auto e andavamo a passeggiare nei posti che ti piacevano tanto, tu riconoscevi la strada e mi rompevi i timpani, tanto la tua gioia era incontenibile. Io ti invidiavo perché non sapevo nemmeno se mi fosse mai capitato di provare una felicità così pura e assoluta da mettermi a urlare.
Ti conoscevano tutti, ti amavano tutti, gli estranei ti sorridevano per strada. Con quel fare perentorio sapevi rubare gli sguardi ovunque, strappare i sorrisi, non passavi mai inosservato, come una star. Eravamo diventati una coppia formidabile, bastava un cenno per capirci al volo. Ogni tanto ti dicevo: “Ma io e te, da uno a dieci, quanto bene ci vogliamo? Quarantasette? Novantadue? Centocinque?” Da quando eri con me non avevo mai più mangiato una mela per intero, ce la spartivamo sempre con le debite proporzioni, il 25% a te e il 75% a me, anche se col tempo eri diventato più bravo e in certe occasioni riuscivi a strappare anche il 50%. Fifty-fifty, come due soci alla pari. Eravamo inseparabili.
Non lo siamo stati alla fine. Non c’ero quando te ne sei andato, non ero lì con te. Mi hanno chiamata subito, ma la clinica era lontana, ho fatto più presto che ho potuto, ma avrei dovuto volare e tu sei stato più veloce. Non posso perdonarmi di averti fatto pensare che ti avevo abbandonato, non si abbandonano gli amici, e neanche glielo si fa pensare. Se lo hai pensato, scusami. Non ero pronta quando sei arrivato e non lo ero quando te ne sei andato.
Queste poche righe te le dovevo. Sei stato il mio grande amico, mi hai insegnato cose, mi hai tirato su il morale, mi hai resa felice, mi sei stato sempre vicino. Non so se ho saputo darti altrettanto, ma ho fatto del mio meglio.
Ciao Paolino.