Al mio amico

Non ero pronta quando sei arrivato.

Avevo perso Oliver e niente avrebbe potuto sostituirlo. Desideravo un cane, ma era ancora troppo presto. Tu però avevi nove anni e avevi bisogno di una famiglia subito, così senza troppa convinzione ho detto sì.

Dopo qualche minuto in auto hai iniziato a renderti conto che qualcosa stava cambiando e avevi perso i tuoi riferimenti. Piangevi forte, probabilmente mi stavi chiedendo di portarti a casa. Io ti stavo portando a casa, solo che non sarebbe stata quella di prima. Volevo dirti che sarebbe stata anche meglio, che saresti stato bene, ma non potevo spiegartelo a parole.

Eri un estraneo. Avevi un colore diverso, Oliver era nero e tu biondo, d’oro in testa e sulle zampe e d’argento sulla schiena e sul pancino. Non ci conoscevamo, non ci capivamo. Cercavi di farti capire e facevi quel che potevi, coricandoti per terra a pancia all’aria per farti benvolere. Ma io sentivo la mancanza di Oliver e ti confesso che quando passeggiavo insieme a te i primi tempi distoglievo lo sguardo per immaginarmi che all’altro capo del guinzaglio ci fosse ancora lui. Non volevo nemmeno che dormissi nella mia stanza, ti avevo messo una brandina fuori e tu ubbidivi; ma durante la notte, mentre dormivo, ti coricavi sul pavimento ai piedi del mio letto e al mattino ti trovavo lì.

Poi una notte è scoppiato un temporale, quella cosa che ti faceva tanta paura. Sei saltato sul letto e ti sei rannicchiato addosso a me tremando. Ti ho accarezzato e ti ho detto che andava tutto bene, ti ho tenuto lì con me e tutto sommato mi è sembrato bello averti lì vicino. Così da quella volta il mio letto è stato anche il tuo.

Eri un camminatore. Facevamo belle e lunghe passeggiate insieme, e tu ogni giorno non vedevi l’ora. Quando mi attardavo col lavoro ti mettevi ad abbaiare rumorosamente e mi impedivi di continuare. A volte salivamo in auto e andavamo a passeggiare nei posti che ti piacevano tanto, tu riconoscevi la strada e mi rompevi i timpani, tanto la tua gioia era incontenibile. Io ti invidiavo perché non sapevo nemmeno se mi fosse mai capitato di provare una felicità così pura e assoluta da mettermi a urlare.

Ti conoscevano tutti, ti amavano tutti, gli estranei ti sorridevano per strada. Con quel fare perentorio sapevi rubare gli sguardi ovunque, strappare i sorrisi, non passavi mai inosservato, come una star. Eravamo diventati una coppia formidabile, bastava un cenno per capirci al volo. Ogni tanto ti dicevo: “Ma io e te, da uno a dieci, quanto bene ci vogliamo? Quarantasette? Novantadue? Centocinque?” Da quando eri con me non avevo mai più mangiato una mela per intero, ce la spartivamo sempre con le debite proporzioni, il 25% a te e il 75% a me, anche se col tempo eri diventato più bravo e in certe occasioni riuscivi a strappare anche il 50%. Fifty-fifty, come due soci alla pari. Eravamo inseparabili.

Non lo siamo stati alla fine. Non c’ero quando te ne sei andato, non ero lì con te. Mi hanno chiamata subito, ma la clinica era lontana, ho fatto più presto che ho potuto, ma avrei dovuto volare e tu sei stato più veloce. Non posso perdonarmi di averti fatto pensare che ti avevo abbandonato, non si abbandonano gli amici, e neanche glielo si fa pensare. Se lo hai pensato, scusami. Non ero pronta quando sei arrivato e non lo ero quando te ne sei andato.

Queste poche righe te le dovevo. Sei stato il mio grande amico, mi hai insegnato cose, mi hai tirato su il morale, mi hai resa felice, mi sei stato sempre vicino. Non so se ho saputo darti altrettanto, ma ho fatto del mio meglio.

Ciao Paolino.

Paolino1

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Ti telefono quando sono di là

Questa notte ho sognato telefonate. Telefonate molto speciali.

In pratica le chiamate funzionavano così: se, trovandosi in un luogo, si aveva l’impressione che lì intorno ci fosse la presenza di una persona morta, bastava sollevare il ricevitore del primo telefono a portata di mano per poterle parlare. Così, senza comporre numeri, senza sentire il segnale della linea. La persona era già lì in attesa. Accadeva anche con i telefoni cellulari, e non servivano piani tariffari particolari, tipo “Ultraterreno Flat” o “You and Family: gratis per tutti gli antenati fino al terzo grado di parentela”. Ricordo che a un certo punto mi trovavo in una panetteria che era stata di una mia compagna di scuola: avevo in mano un iPhone che mi è bastato portare all’orecchio per sentire la sua voce e parlarle. Le dicevo che la sua panetteria era fiorente, bella, grande e molto apprezzata, e lei ne era contenta. Ero emozionata a sentirla, così come se niente fosse, come se stessimo facendo una di quelle interminabili chiacchierate telefoniche che facevamo da bambine. In realtà non è vero, quella mia compagna di scuola è viva, sta bene e non ha nessuna panetteria, ma nel sogno ricordo la gioia di poter parlare di nuovo con una persona che non c’era più.

Tutto questo però era solo un preludio, si può dire. La telefonata con l’amica serviva a prepararmi a quella che sapevo mi avrebbe atteso in un altro posto, la camera dei miei nel vecchio alloggio in cui sono cresciuta. Sul comodino c’era un telefono grigio a disco, uno di quelli che avevamo tutti in casa negli anni ’70 e che installava la SIP. Il telefono non avrebbe squillato, ma se avessi sollevato il ricevitore, dall’altro capo avrei sentito la voce di mio padre che aspettava di parlare con me. “Forte – pensavo – così posso parlargli ogni volta che voglio”, come quando mi telefonava dai vari luoghi in cui viaggiava per lavoro e ci raccontavamo telegraficamente le nostre giornate.

Poi sono entrata in quella fase di sospensione tra sogno e coscienza, in cui una parte di sé si accorge di aver appena sognato, ma l’altra si sforza di risprofondare nel sonno perché non vuole abbandonare il sogno che si sta interrompendo e tenta così di recuperarlo, di rimetterne assieme i pezzi e farlo continuare. Volevo farla, quella telefonata. Volevo scambiare due parole, chiedergli delle cose. Perché il sogno mi aveva concesso di parlare con l’amica, peraltro viva, e spariva proprio ora che stavo per parlare con chi volevo sentire più di tutti? Malgrado gli sforzi, però, non ha funzionato. Poco alla volta mi sono svegliata e mi sono resa conto che quella trovata delle telefonate dei morti era geniale, sì, ma non era vera. Ed è stato lì che mi sono ricordata di un’altra cosa: che l’ultima volta in cui ho parlato con mio padre è stato proprio al telefono, proprio a uno di quei telefoni a disco grigi e pesanti. Solo che nessuno di noi due sapeva, né avrebbe mai potuto immaginare, che quella sarebbe stata la nostra ultima conversazione. Ci eravamo congedati in modo del tutto casuale. “Allora ciao, ti chiamo in settimana da Roma.” – “Va bene, ciao, saluta la mamma.”

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Chi arriva a riva (3)

Il riassunto delle puntate precedenti è qui e qui.

L’anno scorso lo dicevo che il cucciolo di pesce classe 2000, ora praticamente uno squalo, quest’anno non sarebbe più stato raggiungibile. Per oltre metà lago ha nuotato tranquillo accanto a due amici e a me (ormai è diventata una tradizione: ci si incontra a riva, si salutano i genitori, si parte e si nuota affiancati), poi a un certo punto ha inserito i turbopropulsori ed è sparito dalla vista, arrivando ben dieci minuti prima di noi.
Dopo l’arrivo, la mamma ha voluto scattare una foto con il figlioletto e il gruppo di compagni di gara con cui ha nuotato per il terzo anno consecutivo. Stamani ho ricevuto la foto e l’ho guardata. Il piccolo squalo ha già un paio di spalle più grandi delle mie. Occhei.

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A differenza dei soliti sogni

Un paio di notti fa ho fatto un altro dei miei sogni strani, di quelli che mi lasciano inquieta, continuano a darmi da pensare per tutto il giorno e anche per i giorni successivi.

Un uomo cui tenevo molto mi aveva detto una cosa che mi aveva ferita profondamente. Me l’aveva detta anche con una certa noncuranza, come se fosse normale, come se anch’io dovessi trovarla normale, cosa che aveva oltremodo acuito il dolore della ferita. Ma ero riuscita a reagire. Malgrado i miei sentimenti e la voce semispezzata dal magone, avevo avuto uno scatto d’orgoglio, mi ero alzata dal letto amareggiata e articolato una risposta in cui ero riuscita a concentrare tutto il mio amor proprio. Non era giusto. Io non valevo così poco. Poi ero uscita dalla stanza, determinata ad andarmene da lì senza voltarmi indietro.

Avevo recuperato i miei indumenti su una sedia e iniziato a rivestirmi. Facevo fatica, ogni movimento era pesante e impacciato, come spesso capita nei sogni, in cui s’infila un braccio nella manica sbagliata, s’indossano gli abiti a rovescio, si fa confusione, si trova una scarpa ma non l’altra, il tempo passa e non si riesce a concludere. A differenza dei soliti sogni, però, io facevo sì tutta quella fatica, ma alla fine ci riuscivo. Mi rivestivo e intanto pensavo: ecco, ora esce dalla stanza e viene a dirmi che gli dispiace, che non è vero niente, che mi vuole con sé, ci abbracciamo, mi stringe forte come piace a me e tutto diventa più bello.

Ma ovviamente non succedeva. Arrivava invece altra gente: nell’illogicità del sogno, il luogo in cui mi trovavo era diventato la hall di una specie di grande albergo, si era fatta mattina e c’era un viavai di persone che si dirigevano verso la sala della colazione, perché poi avrebbero dovuto affrontare la giornata, tutti avevano da fare. E io in mezzo a quegli sconosciuti, a muovermi controcorrente come un salmone maldestro, perché dovevo recuperare le mie cose e andarmene da lì. Se lui non fosse uscito dalla stanza a cercarmi, abbracciarmi, stringermi forte, me ne sarei andata senza voltarmi indietro.

E pur annaspando in quella hall sempre più affollata, ero riuscita a recuperare tutto; a un certo punto avevo perfino rischiato di dimenticare incustodita la mia borsa, con effetti personali e altre cose necessarie che mi avrebbero permesso di viaggiare. Senza borsa sarei stata perduta. Ma a differenza dei soliti sogni, in cui la borsa sarebbe certamente sparita lasciandomi nel totale smarrimento, lì l’avevo trovata. Potevo partire. Nel frattempo mi guardavo intorno, cercando con gli occhi. Se lui avesse voluto uscire dalla stanza, venirmi incontro, abbracciarmi, stringermi forte e dirmi che mi voleva con sé, quella sarebbe stata l’ultima possibilità, perché io stavo mettendo piede fuori dall’edificio.

Dovevo prendere un autobus che mi avrebbe portata a prendere un treno che mi avrebbe portata a destinazione. Ma per arrivare alla fermata dovevo percorrere una strada in salita che era stata completamente allagata dalle recenti piogge torrenziali. Lui non era uscito dalla stanza.

Immersa nell’acqua fredda fino alle spalle, avevo iniziato a fare un passo dopo l’altro, sempre con estrema fatica a causa della resistenza dell’elemento, cupo e torbido perché pieno di foglie secche e detriti portati dalle piogge. Accidenti che acquaccia, mi dicevo, ma intanto mi ci muovevo. Al diavolo, sei una nuotatrice, che vuoi che sia camminare qui?

E così, a differenza dei soliti sogni, in cui si cerca di correre ma le gambe sono legnose e inerti, le mie, seppure appesantite, rispondevano e mi facevano lentamente avanzare in quell’acqua scura, la borsa in spalla, il cappottone lungo fino ai piedi, i vestiti inzuppati. Non fa nulla, si asciugheranno, pensavo. Risalendo la pendenza della strada, l’acqua gradualmente si abbassava e i movimenti si facevano più sciolti.

Ci avevo messo un tempo incalcolabile, non sapevo nemmeno a che ora sarebbe passato l’autobus; ma a differenza dei soliti sogni, in cui si perdono tutti i mezzi di trasporto possibili, era certo che un autobus sarebbe passato e mi avrebbe portata alla stazione. Non conoscevo gli orari ferroviari, ma non aveva importanza. Prima o poi sarebbe passato un treno. Io ci sarei salita e gli indumenti si sarebbero asciugati. Alla fine a destinazione ci sarei arrivata, con la mia borsa, gli effetti personali, le cose necessarie. Non avevo dimenticato niente.

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Il cane che vola

Di soprannomi a Oliver ne ho dati tanti, a partire da “polpettino”, “frittellino”, “tatino”. Quand’era poco più che cucciolo lo chiamavo “l’elettrone”, per quel moto canino frenetico che impediva letteralmente di determinare la sua posizione nel tempo. Era l’incarnazione del quadro Dinamismo di un cane al guinzaglio di Giacomo Balla.

Poi, con l’inizio della malattia qualche anno fa, si era notevolmente imbolsito, cosicché avevo preso a chiamarlo “cilindretto”, dal momento che la forma affusolata del tronco era divenuta una massa cilindrica uniforme da cui fuoriuscivano quattro zampette scheletriche e una coda mai ferma. Il che gli valeva anche il soprannome di “codinzino”, nonché “cane ridicolo”, per quel suo modo di essere inesorabilmente buffo.

Negli ultimi tempi si era aggiunto un nuovo soprannome: “il cane che vola”. Il suo corpo si era asciugato all’inverosimile e gli arti irrigiditi, tanto che faticava a scendere e salire i due piani di scale per uscire a fare pipì. Per questo scendevo io le scale con lui in braccio. Al momento di risalire, si posizionava ai piedi della rampa e mi guardava con due occhietti supplichevoli, come a dire: “Mi aiuti?” Allora sollevavo il corpicino tutto pelle e ossa e dicevo: “Guarda, Oliver, facciamo il cane che vola!”, e lo trasportavo su fino al secondo piano dandogli l’impressione di volare al di sopra dei gradini per evitargli la fatica di salire; infine, lo posavo delicatamente sulla soglia di casa e lui si dirigeva a piccoli passi incerti verso il cuscino su cui passava ormai tutto il tempo a dormire.

Da oggi Oliver vola per davvero.

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Solchi

Ieri pomeriggio ho scattato questa foto dopo la mia ultima gara di nuoto in acque libere della stagione. Al mattino la scenografia della spiaggia era decisamente estiva: sole caldo, decine di persone tra nuotatori e spettatori, musica, voci, gazebo, profumi di cibo cucinato per rifocillare chi si era macinato tre chilometri e mezzo in acque che del calore estivo avevano tuttavia già perso molto, boe in mare a tracciare il percorso, imbarcazioni al seguito dei nuotatori, allegria diffusa, classifiche, premiazioni, applausi, ringraziamenti. Poi tutto è finito, la gente se n’è andata, la cucina da campo è stata smontata, le boe in mare rimosse, tavoli e sedie accatastati, e anche l’estate si è congedata, spiegando che sì, le aveva fatto piacere rimanere un po’ più a lungo, visto anche il ritardo con cui si era presentata, ma che ora non poteva trattenersi oltre, né intorno a noi, né nei nostri stati d’animo.

E così nel pomeriggio l’ho salutata con quest’immagine, grata per la generosa proroga concessa, ma un po’ a disagio in quella scomoda miscela di malinconia, nostalgia e disorientamento che affiora quando finisce qualcosa. Nella fattispecie, terminava un periodo vissuto intensamente, con la consapevolezza, seppure differita, di un piccolo solco di separazione scavato in modo lento e sistematico dall’imporsi degli eventi. Se in quel solco stia riposando qualche seme caduto più o meno casualmente nel dipanamento del vivere, lo capirò a tempo debito, ché per germogliare i semi hanno bisogno di un autunno di pazienza e di un inverno di silenzio. Per ora, mi limito ad assecondare un vago senso di aspettativa indefinita e curiosità per quanto si lascerà pazientemente scoprire nel viaggio attraverso una stagione nuova.

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Paradossi

C’è questo paradosso, con la Liguria: che mi piace così tanto che quasi preferisco avercela sì, vicina, ma non abitarci, così posso ripetere all’infinito il gioco magico e infantile di partire da casa, in breve tempo scavalcare l’appennino e trovarmi di colpo in un’altra storia, un’altra stagione, un’altra dimensione.

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Chi arriva a riva (2)

C’è chi ritiene che le esperienze indimenticabili debbano restare eventi unici perché la magia nata dalla felice combinazione di persone e circostanze non è riproducibile in serie. Il che è vero in certi casi, come è altrettanto vero però che in altri si riproduce eccome, la bellezza raddoppia e ci rendiamo conto che se avessimo rinunciato per timore di una delusione ci saremmo persi qualcosa di prezioso.
Così quest’anno ho ripetuto l’esperienza dell’anno scorso attraversando a nuoto il lago di Viverone. Ovviamente ciò che spinge a fare il bis a un evento sportivo è soprattutto lo spirito agonistico, la voglia di migliorare rispetto alla volta precedente, la sfida con sé stessi. Ma per me non è tutto: io ho anche bisogno del contesto di amici, chiacchiere e collegialità che comporta la condivisione della giornata di gare; le risate, il tifo, gli incitamenti reciproci, i commenti postumi davanti a una pizza che dopo quattro chilometri a nuoto non è mai abbastanza grande.
Volevo migliorare e sono migliorata: dall’ora e ventitré dell’anno scorso sono scesa a un’ora e dodici – forse non solo per ragioni di velocità, ma anche di traiettoria azzeccata. Però anche qualcun altro è migliorato: il piccolo Diego, il cucciolo di pesce classe 2000 che l’anno scorso a soli 10 anni ha sfidato impavido i 4 km nuotandomi a fianco, è stato il mio compagno di traversata anche quest’anno. Sempre atteso a riva dalla mamma, che ora aveva in braccio il fratellino nato da poco, il mini delfinista ha mostrato quale meraviglioso cambiamento possa avvenire in un bambino in soli 12 mesi: non più un bimbo un po’ timoroso e talvolta scoordinato, ma un nuotatore sicuro che sapeva come affrontare il suo lago bracciata dopo bracciata, senza un attimo di stanchezza o cedimento, solo qualche colpo a rana per alzare la testa e controllare la direzione, una determinazione ammirevole e, soprattutto, una velocità che il prossimo anno quasi sicuramente non mi sarà più possibile sostenere, se non allenandomi il doppio.
Mi ha ringraziato, dopo avermi salutato all’arrivo ed essere tornato dalla mamma. Ma la mia sensazione rimane la stessa dell’anno scorso: che sono io a dover ringraziare lui.

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Mancare come…

…il dentifricio dallo spazzolino da denti.
…un capitolo da un libro.
…la punta dalla matita.
…il cucchiaio dalla minestra.
…il cappuccio dalla giacca a vento.
…il sale dall’acqua della pasta.
…la biancheria di ricambio dalla valigia per il viaggio.
…il caffè dal mattino.
…le caselle bianche dalla scacchiera.
…i guanti dall’inverno.
…il profumo dalla lavanda.
…la maniglia dalla porta.
…il freno destro dalla bicicletta.
…l’adesivo dai post-it.
…i tifosi dalla partita.
…la doppia pagina delle barzellette dalla Settimana Enigmistica.
…una lente da un paio d’occhiali.
…lo specchio da sopra il lavandino del bagno.
…un bottone dalla camicia.
…il lato abrasivo verde dalla spugnetta per le stoviglie.
…l’asciugamano dalla doccia.
…la tapparella dalla finestra.
…l’elastico dalle mutande.
…il blu dalla scatola dei pastelli.
…la mezzeria dalla strada nella nebbia.
…le luci dall’albero di Natale.
…l’impermeabile dal tenente Colombo.
…le patatine fritte dalla lista dei contorni.
…il fornelletto dalla stanza piena di zanzare.
…la corrente dal film alla TV.
…il sole dalla spiaggia.
…un’ottava dalla tastiera del pianoforte.
…”A Day in The Life” dall’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
…la lancetta delle ore dall’orologio.
…un manico dalla casseruola.
…il silenzio dalla montagna.
…una pala dall’elica di un ventilatore.
…lo zafferano dal risotto.
…un laccio da un paio di scarpe.
…tre rebbi da una forchetta.
…gli starnuti dal raffreddore.
…la pace dal sonno.
…le parole giuste dal momento giusto.
…le suole di gomma da una giornata di pioggia.
…la marmellata di albicocche dalla Sacher Torte.
…la rabbia da una sconfitta subìta.
…il nome da un citofono da suonare fra tanti.
…il senso del ridicolo dagli innamorati respinti.
…tutti i buchi dallo scolapasta, tranne uno.
…la doppia c da ecc. ecc.

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Diventare tempo

Qualche giorno fa stavo preparando un dolce in cucina, una ciambella casalinga da mangiare un po’ per volta a colazione. Mentre mi lasciavo appacificare dalla ritualità di quei movimenti, ho ripensato a una giornata perfetta che ho vissuto, anzi, che un’amica mi ha fatto vivere, qualche mese fa.

Ero invitata a casa sua per il fine settimana. Il mio treno sarebbe arrivato nella sua città verso l’ora di pranzo; diversi amici, che ancora non conoscevo, erano invitati a cena da lei quella sera, e noi avevamo un pomeriggio di tempo per darci da fare ai fornelli.

L’amica mi ha prelevata con l’auto, poi siamo passate al supermercato a comprare il pane e le ultime cose necessarie per la cena, dopodiché  mi ha accompagnata a casa sua, dove abbiamo pranzato prima di metterci all’opera. La vedevo un po’ in apprensione perché le cose da fare erano tante e temeva di non farcela entro sera. I piatti da offrire agli ospiti erano variegati, ma quello più importante era un arrosto al forno con verdure che richiedeva una lenta cottura e una preparazione altrettanto lunga perché le verdure dovevano essere tagliate a pezzetti piccolissimi.

Mi dispiace coinvolgerti in questa che è la parte più noiosa del lavoro, aveva detto la mia amica mettendo in tavola un contenitore pieno di sedani e carote già puliti e lavati. Invece è stata la parte più bella. Sedute comodamente al tavolo della cucina, ciascuna con il proprio coltello e tagliere, abbiamo iniziato a sminuzzare metodicamente gli ortaggi senza mai smettere di chiacchierare.

Parlavamo di tutto, dell’infanzia, di ricordi, di opinioni politiche e di ricette, di persone care e di cose vissute, mentre a turno svuotavamo periodicamente il tagliere nella grande teglia da forno che avrebbe ospitato l’arrosto per dieci persone. Non so quanto tempo avesse richiesto quel lavoro da certosini, giacché ci eravamo completamente scordate dell’orologio.

Poi è stato il turno della preparazione dei vassoi di affettati e formaggi che avrebbero fatto da antipasto, insieme a due tipi di crostini, uno al forno con formaggio e uova e uno con i fegatini, secondo la tipica ricetta toscana.

Occorreva poi preparare l’insalata, tagliare il pane, montare la panna che avrebbe farcito il dolce. Era tempo di avviare l’arrosto, che richiedeva almeno un paio d’ore di cottura al forno e doveva essere dapprima rosolato in tegame. Di tanto in tanto ci ricordavamo di gettare uno sguardo all’ora; la mia amica trasaliva, è tardi, diceva; io la tranquillizzavo, anche se in realtà era lei a tranquillizzare me, con quel misto terapeutico di conversazione e destrezza culinaria esibita con casuale spontaneità.

Mancava poco, ormai. Mentre l’arrosto rosolava, siamo scese in cantina a procurare sedie extra e vino per la cena; infine, un tavolino quasi invisibile, appoggiato contro il muro e apparentemente fatto solo per posarci le chiavi dell’auto e la posta, con l’aggiunta di pezzi estratti da un armadio si è trasformato in un regale tavolo conviviale, addobbato poi con tovaglia, piatti, posate, calici (uh, questi sono un po’ impolverati, laviamoli, anzi, laviamoli tutti) e ornamenti per i calici – graziose palline di vetro di colori diversi, fatte per personalizzare i bicchieri affinché ognuno potesse sempre riconoscere il proprio (sono imbattibile nello scovare cianfrusaglie inutili, aveva detto la mia amica).

Cominciavamo a ricevere le prime telefonate e i messaggi degli amici che annunciavano il loro imminente arrivo; i piatti degli antipasti erano pronti, i crostini dovevano solo essere infornati e l’arrosto con verdure diffondeva un profumo delizioso. All’arrivo degli ospiti tutto era stato preparato a dovere, e la serata era proseguita tra chiacchiere, risate e complimenti ai piatti serviti.

Eppure, ciò che più di tutto mi ha scaldato il cuore dell’intera giornata è stato il pomeriggio di lavoro e parole in cucina. Ho pensato spesso a cos’abbia reso speciali quelle ore. La risposta più ovvia è che, senza rendercene conto, abbiamo vissuto a fondo ogni minuto del tempo trascorso insieme. Ma non è stato solo quello. Nei nostri compiti suddivisi, nei gesti alacri misti a frasi miste a risate miste a pane affettato e occhiate al procedere della cottura, eravamo così naturalmente affiatate che il tempo lo abbiamo scandito noi, come ingranaggi di un orologio umano che combaciano in un succedersi di movimenti fluidi e perfetti. Noi due, quel pomeriggio, il tempo non lo abbiamo semplicemente trascorso: lo siamo diventate.

Così, mentre versavo l’impasto della mia ciambella nella teglia imburrata, ho pensato che non capita spesso di trovare persone con cui diventare tempo. Per questo quel pomeriggio in cucina mi ha fatta sentire una persona fortunata.

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