Era la notte di Natale del 1982 e lei faceva seconda liceo.
Cantava, o meglio, mimetizzava la sua voce tra le altre voci del coro parrocchiale del suo paese, non perché fosse particolarmente desiderosa di esprimere la sua anemica fede con il canto, ma perché, in mancanza d’altro, il gruppo parrocchiale era una delle poche occasioni per incontrare amici e adocchiare esponenti dell’altro sesso suscettibili di destare il suo interesse.
E difatti uno di loro il suo interesse l’aveva destato eccome, e lei era intenzionata ad approfondire la cosa. Perlomeno a scoprire se l’interesse destato fosse almeno minimamente ricambiato. Per esempio, che cosa poteva nascondersi dietro quel noncurante cenno della testa accompagnato da un “ciao” inespressivo che lui le indirizzava sulla corriera delle sette del mattino stipata di studenti assonnati? Era semplicemente una risposta al “ciao” che lei non mancava mai di rivolgergli per prima oppure celava un segreto desiderio di baciarla a lungo in un luogo appartato alla prima festa possibile, dopo aver ballato lenti solo con lei a casa di qualche fortunato che possedeva quelle luci colorate che si accendevano a intermittenza col ritmo della musica?
Insomma, lei non ne poteva più, doveva farglielo sapere. Che senso ha struggersi se l’oggetto dei tuoi desideri vive pacifico e tranquillo, torpidamente ignaro dei tuoi struggimenti? Che lo sapesse, maledizione, che fosse perlomeno consapevole delle sue responsabilità per la tempesta ormonalsentimentale che stava causando in quell’abbozzo di fanciulla.
E così quella sera di Natale del 1982 lei si era messa in tiro per lui.
Facciamo a capirci. Vediamo di acclarare il significato concreto di “in tiro” per una secchiona quindicenne miope sovrappeso del 1982 che ancora non era riuscita a venire a patti con: a) la battaglia contro l’acne; b) la capacità di discernere tra montature passabili e montature inguardabili nel negozio di ottica; c) il gusto di vestirsi con almeno un remoto barlume di femminilità; d) la parrucchiera.
E sì che qualche segnale di allarme le era già pervenuto. Il clamoroso amorfismo del suo aspetto non era passato inosservato agli occhi dei maschietti, per esempio di quei tre sconosciuti di qualche quarta o quinta che un giorno, sulle scale del liceo, durante l’intervallo avevano preso ad apostrofarla con appellativi tipo “schianto”, “figona”, “gran bella …” che lì per lì l’avevano lasciata interdetta, per poi instillarle, qualche frazione di secondo dopo, il sospetto che avessero un sottile sentore ironico. Ritenendo umiliante scomporsi, lei aveva raccolto tutto il suo autocontrollo e sfoggiando il sorriso più sciolto possibile aveva risposto: “A osservarvi bene tutti e tre devo dire che anche voi siete proprio niente, ma niente male. Sì sì, uno più figo dell’altro, da farci un pensierino.” Ci mise vent’anni a capire che anche nella sua risposta poteva leggersi una lieve valenza ironica, ma l’esprit d’escalier era destinato a far parte della sua personale dotazione di punti deboli per tutta la vita.
Dunque, tornando allo strepitoso look della sera di Natale dell’82, la situazione che si presentava era la seguente: pantaloni di panno bianco panna con piega frontale marca Stefanel, infilati dentro stivaletti antineve scamosciati con interno lana (“Questi ti scaldano bene, hai i piedi sempre così freddi”, aveva detto la mamma), altezza mezzo polpaccio, ideali per ridurre otticamente del 50% circa la lunghezza di un paio di gambe già corte di per sé; maglioncino in lana blu marca Stefanel, con fiorellini bianchi e rossi, spalline imbottite e vita stretta a sbuffo, ideale per ridurre otticamente del 25% circa un busto di per sé non particolarmente affusolato e per mettere in risalto un fondoschiena sovradimensionato avvolto – e non nell’accezione sexy del termine – dal pantalone in panno bianco panna di cui sopra; pettinatura con frangia domata a colpi di phon e spazzola, con forte scalatura in alto e lunghezza alle spalle. Fortunatamente i capelli erano ricci e il terrificante taglio mullet non risaltava com’era solito fare nelle capigliature lisce; occhiali… oddio, gli occhiali no! Quelli non poteva tenerli sul naso, non in quel momento, per la miseria. Il top, il massimo della bellezza e del fascino era occhiali zero, si capisce. L’occhiale era bandito, vietato, verboten, stop. Nascondere in borsa al momento di affrontare di petto l’oggetto dei desideri.
Sì, ma quando affrontarlo di petto? Non poteva prevedere un momento preciso, avrebbe dovuto improvvisare. Era agitatissima. La messa di mezzanotte non era ancora iniziata e lei, dalla sua postazione nel coro, lo vide avvicinarsi. Era venuto a salutare un paio di amici, senza minimamente accorgersi della presenza di un campionario di Stefanel con goffa quindicenne all’interno. (Beh, dai, non ti ha vista. Perché se ti avesse vista sarebbe rimasto folgorato. Folgorato… magari folgorato è una parola grossa, ma un pochino gli saresti piaciuta.) Quando lo vide allontanarsi si disse “Ora!”, si tolse gli occhiali infilandoli a tastoni nella borsa per non perdere di vista lui che nel frattempo era diventato una macchia sfocata in movimento e seguì la macchia all’uscita della chiesa. Ottima mossa, non c’era nessuno, erano già tutti dentro perché la funzione stava per cominciare. Faceva freddo ma lei sudava, dentro quel maglioncino blu a fiorellini. Lo chiamò. Ok, disinvolta, mi raccomando. Sorridente. Lui si voltò. Ciao, ehi, ciao.
“Be’, ecco, sai, c’è… una… cosa che volevo… di-dirti da taa-aa-nto tempo…”
Digliela maledizione, digli “mi piaci, mi piaci tantissimo, vorrei tanto che stessimo insieme e che tu mi baciassi a lungo a una festa di quelle a casa di qualcuno con i lenti e le luci colorate intermittenti dopo che hai ballato tutti quei lenti con me.”
“Ecco, sai, volevo dirti che che tu mi… mi… mi…”
E non ti inceppare proprio ora, dannazione! Mi piaci. Tre sillabe. Mi-pia-ci. Che ci vuole? Forza!
“Mi… mi… s-s-e-ei m-molto s-s-simpatico.”
SIMPATICO?? Ma che razza d’idiota, d’imbranata, di patata lessa vagante! Simpatico. Vigliacca che non sei altro, dove speri di arrivare con un “simpatico”? Eh?
Ma lui aveva capito lo stesso. E ora doveva liberarsi da quella situazione.
“Beh, sai, mi fa piacere, ma… ecco… io ce l’ho già una ragazza”, mentì.
Eccerto. Ce l’ha già una ragazza, lui. Che ti aspettavi, che fosse lì a spasimare per te?
“Ah, ma dai, cioè, davvero?”, replicò lei con una disinvoltura così esagerata che a momenti sfociava in interesse e sincera partecipazione.
Ecco, sì, brava, digli pure che sei contenta e che ti fa molto piacere. Che altro, eh? Vuoi chiedergli se cortesemente calpesta il tuo cadavere con un paio di scarponi chiodati, già che ci sei? Idiota.
“E… chi… voglio dire, chi…”
“Oh, lei non è di qui, è di [nome di paese limitrofo]”, spiegò. Era più semplice mentire, se dicevi che non era del posto.
Massì. In fondo quante speranze avevi? E questa tizia se la sarà scelta bene, sarà sicuramente una di quelle carine, magre e coi capelli lisci, magari biondi. Di quelle che ai ragazzi piacciono veramente, mica come te. Tu al limite sei simpatica, sì, lo dicono tutti che sei una simpatica.
Si scambiarono altri due convenevoli cui lei non prestò quasi attenzione, tanto si sentiva fagocitare dall’oppressione, colse di sfuggita la parola “amici” (amici? ha detto amici? e tu non gli dici niente, neanche un cordiale vaffanculo?), si accorse che dalla sua bocca uscivano le parole “sì, volentieri” (ehi, chi ha autorizzato l’uscita di quelle due parole, chi è stato il cretino, eh?), e tutto terminò con un reciproco “ciao, buon Natale”.
Sì, buon Natale, vorrei vedere te, vorrei vedere.
Rientrò in chiesa perché c’erano tutte quelle canzoni da cantare, le avevano provate per settimane ogni venerdì sera. Ma era già cominciato, non poteva tornare al suo posto adesso. Si mise in un angolo ad attendere che finisse la musica, per poi scivolare inosservata nel coro. A dire il vero se ne sarebbe tornata volentieri a casa, chi aveva voglia di starsene in mezzo a tutti gli altri a fingere allegria natalizia? Ma aveva lasciato là in mezzo la borsa e il cappotto, e fuori faceva freddo. Ora lo sentiva tutto.