Diversamente salita

Scarpinare sui sentieri di montagna, oltre che bello, è anche un esercizio molto utile.
Serve a rinfrescare nella mente intorpidita un concetto apparentemente ovvio ma spesso sottovalutato quando la salita accorcia il fiato, spezza le gambe e concentra ogni pensiero e ogni sguardo sulla fatica del passo dopo passo.
A ricordare, cioè, che la discesa, solo perché si chiama discesa, non è poi così facile come ci si immaginava e che va gestita con accortezza e con il debito controllo di ogni muscolo, se si vuole tornare a valle con un sorriso stanco e soddisfatto anziché con le ossa rotte dopo un lungo ruzzolone.

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Dell’utilità delle piume contro il solletico

Sicuramente non sono l’unica persona cui capita, ma ogni tanto mi capita. Capita, cioè, di fare sogni che non sembrano reali, sono reali, così tangibili da non differire in nulla dalle esperienze materiali. Se sogno, per esempio, di mangiare una fetta di torta al cioccolato, ne percepisco la sofficità al contatto di denti e palato, sento le papille bearsi del gusto fragrante e mi sveglio con la sensazione di averla mangiata per davvero. Avverto il sapore del cioccolato nel sogno. Così come avverto la freschezza e la liquidità dell’acqua quando sogno di berla (tranne, ovviamente, quando ho sete per davvero e allora sogno di bere senza dissetarmi mai).

In sogno litigo furiosamente in tre lingue, sfoderando argomentazioni taglienti come katane; un samurai della parola che affetta l’interlocutore con precisione millimetrica facendone pezzettini che restano compresi giusto il tempo necessario a prendere atto di aver appena cessato di esistere come entità unica, per poi cadere al suolo e sparpagliarsi molteplici grazie ai miei affilati virtuosismi verbali, nel sogno sempre sommamente coerenti e inossidabili.

Per non parlare della solida e calda corporeità degli abbracci, veri nel sogno quanto nella realtà, così come le lacrime che ogni tanto li accompagnano e con cui ho modo di bagnarmi le dita non appena mi strofino gli occhi svegliandomi. Evito di addentrarmi nei particolari di quando sogno di fare l’amore, ma, ecco, ci siamo capiti.

Quest’ampia prolusione per dire che l’esperienza di “realtà onirica” di questa notte ancora mancava alla mia collezione. Stanotte ho sognato di volare. Sì, va bene, era già capitato qualche svolazzamento in dormiveglia a mo’ di gallinaceo, ma sempre cose vaghe e confuse, niente a che vedere con queste vere e proprie seconde vite che ogni tanto vivo nel sonno, quasi fossi sotto l’effetto di un allucinogeno. Io, stanotte, ho volato per davvero. Io che soffro di vertigini ad appendere un quadro, che faccio sogni terrificanti in cui mi trovo intrappolata in cima a grattacieli in costruzione senza appigli per scendere, condannata a mettere un piede in fallo e precipitare nelle centinaia di metri di vuoto sotto di me, io ho volato sul serio. Almeno una volta in vita mia ho saputo cosa si prova a essere un aquilone, un uccello, un aereo, una libellula, Peter Pan. Braccia aperte come ali, sentivo l’aria sfiorarmi e farmi il solletico, inondandomi di brividi; salivo e scendevo, con impavide picchiate e rasoterra, poi riprendevo quota e mi libravo sui tetti, senza vertigini.

Così ho capito, per esempio, che le piume degli uccelli servono a ripararli dal solletico. Perché mentre voli, l’aria che ti sospinge non può fare a meno di farti il solletico dappertutto: tra le dita, lungo le braccia e le gambe, intorno alle orecchie, sulla pancia, e poi sul collo, scendendo lungo la schiena. Se il corpo fosse ricoperto di penne e piume, invece, questo solletico sulla pelle non lo si avvertirebbe. Intendiamoci, è piacevole, non può certo definirsi fastidioso, però può anche distrarre, e ho notato che di ostacoli ce ne sono a centinaia anche quando si vola, quindi bisogna stare molto attenti a dove si va e non concentrarsi troppo sulle sensazioni a fior di pelle.

Mentre volavo e mi sentivo accarezzare dall’aria, ho anche pensato a quanto sia ironico che noi umani usiamo le piume per farci il solletico mentre gli uccelli se ne servono per ripararsene. E comunque, così deliziata ed euforica per le emozioni generate dai vuoti d’aria e dalle circonvoluzioni aeree, mi ero anche fatta un programmino di volo, perché, già che c’ero, anziché volare a vuoto tanto valeva avere una destinazione.

L’unica stonatura di quell’esperienza bellissima era la sottile sensazione di sottofondo che tutto ciò non sarebbe durato. Che presto sarebbe finito. E che a destinazione non ci sarei mai arrivata.

E infatti è finito, prima che mi svegliassi. Nei pressi di una tangenziale, dove c’era un incrocio con semaforo e la periferia urbana era avvolta da una leggera nebbia autunnale, sono atterrata tornando normale. Il fatto è che non sapevo quando si aprisse la stagione della caccia, e all’improvviso ero stata colta dal timore di essere scambiata per un enorme fagiano.

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Addì 2 dipicche 1982

Era la notte di Natale del 1982 e lei faceva seconda liceo.
Cantava, o meglio, mimetizzava la sua voce tra le altre voci del coro parrocchiale del suo paese, non perché fosse particolarmente desiderosa di esprimere la sua anemica fede con il canto, ma perché, in mancanza d’altro, il gruppo parrocchiale era una delle poche occasioni per incontrare amici e adocchiare esponenti dell’altro sesso suscettibili di destare il suo interesse.

E difatti uno di loro il suo interesse l’aveva destato eccome, e lei era intenzionata ad approfondire la cosa. Perlomeno a scoprire se l’interesse destato fosse almeno minimamente ricambiato. Per esempio, che cosa poteva nascondersi dietro quel noncurante cenno della testa accompagnato da un “ciao” inespressivo che lui le indirizzava sulla corriera delle sette del mattino stipata di studenti assonnati? Era semplicemente una risposta al “ciao” che lei non mancava mai di rivolgergli per prima oppure celava un segreto desiderio di baciarla a lungo in un luogo appartato alla prima festa possibile, dopo aver ballato lenti solo con lei a casa di qualche fortunato che possedeva quelle luci colorate che si accendevano a intermittenza col ritmo della musica?

Insomma, lei non ne poteva più, doveva farglielo sapere. Che senso ha struggersi se l’oggetto dei tuoi desideri vive pacifico e tranquillo, torpidamente ignaro dei tuoi struggimenti? Che lo sapesse, maledizione, che fosse perlomeno consapevole delle sue responsabilità per la tempesta ormonalsentimentale che stava causando in quell’abbozzo di fanciulla.

E così quella sera di Natale del 1982 lei si era messa in tiro per lui.

Facciamo a capirci. Vediamo di acclarare il significato concreto di “in tiro” per una secchiona quindicenne miope sovrappeso del 1982 che ancora non era riuscita a venire a patti con: a) la battaglia contro l’acne; b) la capacità di discernere tra montature passabili e montature inguardabili nel negozio di ottica; c) il gusto di vestirsi con almeno un remoto barlume di femminilità; d) la parrucchiera.

E sì che qualche segnale di allarme le era già pervenuto. Il clamoroso amorfismo del suo aspetto non era passato inosservato agli occhi dei maschietti, per esempio di quei tre sconosciuti di qualche quarta o quinta che un giorno, sulle scale del liceo, durante l’intervallo avevano preso ad apostrofarla con appellativi tipo “schianto”, “figona”, “gran bella …” che lì per lì l’avevano lasciata interdetta, per poi instillarle, qualche frazione di secondo dopo, il sospetto che avessero un sottile sentore ironico. Ritenendo umiliante scomporsi, lei aveva raccolto tutto il suo autocontrollo e sfoggiando il sorriso più sciolto possibile aveva risposto: “A osservarvi bene tutti e tre devo dire che anche voi siete proprio niente, ma niente male. Sì sì, uno più figo dell’altro, da farci un pensierino.” Ci mise vent’anni a capire che anche nella sua risposta poteva leggersi una lieve valenza ironica, ma l’esprit d’escalier era destinato a far parte della sua personale dotazione di punti deboli per tutta la vita.

Dunque, tornando allo strepitoso look della sera di Natale dell’82, la situazione che si presentava era la seguente: pantaloni di panno bianco panna con piega frontale marca Stefanel, infilati dentro stivaletti antineve scamosciati con interno lana (“Questi ti scaldano bene, hai i piedi sempre così freddi”, aveva detto la mamma), altezza mezzo polpaccio, ideali per ridurre otticamente del 50% circa la lunghezza di un paio di gambe già corte di per sé; maglioncino in lana blu marca Stefanel, con fiorellini bianchi e rossi, spalline imbottite e vita stretta a sbuffo, ideale per ridurre otticamente del 25% circa un busto di per sé non particolarmente affusolato e per mettere in risalto un fondoschiena sovradimensionato avvolto – e non nell’accezione sexy del termine – dal pantalone in panno bianco panna di cui sopra; pettinatura con frangia domata a colpi di phon e spazzola, con forte scalatura in alto e lunghezza alle spalle. Fortunatamente i capelli erano ricci e il terrificante taglio mullet non risaltava com’era solito fare nelle capigliature lisce; occhiali… oddio, gli occhiali no! Quelli non poteva tenerli sul naso, non in quel momento, per la miseria. Il top, il massimo della bellezza e del fascino era occhiali zero, si capisce. L’occhiale era bandito, vietato, verboten, stop. Nascondere in borsa al momento di affrontare di petto l’oggetto dei desideri.

Sì, ma quando affrontarlo di petto? Non poteva prevedere un momento preciso, avrebbe dovuto improvvisare. Era agitatissima. La messa di mezzanotte non era ancora iniziata e lei, dalla sua postazione nel coro, lo vide avvicinarsi. Era venuto a salutare un paio di amici, senza minimamente accorgersi della presenza di un campionario di Stefanel con goffa quindicenne all’interno. (Beh, dai, non ti ha vista. Perché se ti avesse vista sarebbe rimasto folgorato. Folgorato… magari folgorato è una parola grossa, ma un pochino gli saresti piaciuta.) Quando lo vide allontanarsi si disse “Ora!”, si tolse gli occhiali infilandoli a tastoni nella borsa per non perdere di vista lui che nel frattempo era diventato una macchia sfocata in movimento e seguì la macchia all’uscita della chiesa. Ottima mossa, non c’era nessuno, erano già tutti dentro perché la funzione stava per cominciare. Faceva freddo ma lei sudava, dentro quel maglioncino blu a fiorellini. Lo chiamò. Ok, disinvolta, mi raccomando. Sorridente. Lui si voltò. Ciao, ehi, ciao.

“Be’, ecco, sai, c’è… una… cosa che volevo… di-dirti da taa-aa-nto tempo…”

Digliela maledizione, digli “mi piaci, mi piaci tantissimo, vorrei tanto che stessimo insieme e che tu mi baciassi a lungo a una festa di quelle a casa di qualcuno con i lenti e le luci colorate intermittenti dopo che hai ballato tutti quei lenti con me.”

“Ecco, sai, volevo dirti che che tu mi… mi… mi…”

E non ti inceppare proprio ora, dannazione! Mi piaci. Tre sillabe. Mi-pia-ci. Che ci vuole? Forza!

“Mi… mi… s-s-e-ei m-molto s-s-simpatico.”

SIMPATICO?? Ma che razza d’idiota, d’imbranata, di patata lessa vagante! Simpatico. Vigliacca che non sei altro, dove speri di arrivare con un “simpatico”? Eh?

Ma lui aveva capito lo stesso. E ora doveva liberarsi da quella situazione.

“Beh, sai, mi fa piacere, ma… ecco… io ce l’ho già una ragazza”, mentì.

Eccerto. Ce l’ha già una ragazza, lui. Che ti aspettavi, che fosse lì a spasimare per te?

“Ah, ma dai, cioè, davvero?”, replicò lei con una disinvoltura così esagerata che a momenti sfociava in interesse e sincera partecipazione.

Ecco, sì, brava, digli pure che sei contenta e che ti fa molto piacere. Che altro, eh? Vuoi chiedergli se cortesemente calpesta il tuo cadavere con un paio di scarponi chiodati, già che ci sei? Idiota.

“E… chi… voglio dire, chi…”

“Oh, lei non è di qui, è di [nome di paese limitrofo]”, spiegò. Era più semplice mentire, se dicevi che non era del posto.

Massì. In fondo quante speranze avevi? E questa tizia se la sarà scelta bene, sarà sicuramente una di quelle carine, magre e coi capelli lisci, magari biondi. Di quelle che ai ragazzi piacciono veramente, mica come te. Tu al limite sei simpatica, sì, lo dicono tutti che sei una simpatica.

Si scambiarono altri due convenevoli cui lei non prestò quasi attenzione, tanto si sentiva fagocitare dall’oppressione, colse di sfuggita la parola “amici” (amici? ha detto amici? e tu non gli dici niente, neanche un cordiale vaffanculo?), si accorse che dalla sua bocca uscivano le parole “sì, volentieri” (ehi, chi ha autorizzato l’uscita di quelle due parole, chi è stato il cretino, eh?), e tutto terminò con un reciproco “ciao, buon Natale”.

Sì, buon Natale, vorrei vedere te, vorrei vedere.

Rientrò in chiesa perché c’erano tutte quelle canzoni da cantare, le avevano provate per settimane ogni venerdì sera. Ma era già cominciato, non poteva tornare al suo posto adesso. Si mise in un angolo ad attendere che finisse la musica, per poi scivolare inosservata nel coro. A dire il vero se ne sarebbe tornata volentieri a casa, chi aveva voglia di starsene in mezzo a tutti gli altri a fingere allegria natalizia? Ma aveva lasciato là in mezzo la borsa e il cappotto, e fuori faceva freddo. Ora lo sentiva tutto.

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Camicie inutili

Non finisco mai di stupirmi di come la memoria ripeschi nel suo disordinato magazzino avvenimenti che erano così dimenticati da non sembrare mai esistiti. Evidentemente la mia somiglia ai cassetti e agli scaffali che mi circondano: ogni tanto frugo nel caos e spuntano cose che non sapevo più di possedere.
Per esempio, a distanza di sedici anni mi sono ricordata solo pochi giorni fa che le ultime camicie di mio padre le avevo stirate io. Stiravo e insistevo con la punta del ferro per rimuovere ogni minima piega da colletti e polsini, pensando all’assurdità dell’usare tanta maniacale precisione per camicie che non sarebbero più servite.
Perché quando uno muore all’improvviso le tracce di vita vissuta di recente rimangono lì intorno, come se la persona che le ha seminate dovesse tornare da un momento all’altro e riprendere da dove si era interrotta. Una valigia appena fatta cui manca solo lo spazzolino da denti, gli asciugamani ancora umidi sul bordo della vasca da bagno, in lavastoviglie i piatti appena usati per la cena, le camicie pulite da stirare.
Avevo completamente scordato questa cosa delle camicie. E penso a quante cose sono successe in sedici anni: mi sono laureata, ho viaggiato, ho lavorato, ho riso, ho pianto, ho perso, ho conosciuto, ho amato, ho fatto e disfatto, ho sperato, ho disperato. Sedici anni senza ricordare neanche una volta che avevo stirato quelle camicie. Quale astruso meccanismo abbia fatto riemergere proprio ora quell’episodio, non lo saprò mai. Non stavo nemmeno pensando a niente di particolare, mi ero solo distratta un attimo da una delle mie solite traduzioni; e all’improvviso mi sono rivista lì, al tavolo della vecchia cucina a stirare camicie inutili, chiedendomi che senso avesse farlo.

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Alzheimer onirico

Questa notte, forse è meglio dire questa mattina presto – ché sicuramente era mattina – nella semincoscienza tra sonno e dormiveglia ho sognato di formulare un pensiero che mi piaceva proprio. Ricordo chiaramente che ricordavo parola per parola quel pensiero, era una sintesi di saggezza, equilibrio, coerenza e lucidità. E lo avevo formulato così bene che mi ero addirittura complimentata con me stessa per tanta chiarezza espressa in poche parole pregnanti, più armoniose di un sonetto, più essenziali di un haiku. Percepivo chiaramente la fisicità del contatto della mia testa col cuscino, dell’essere sdraiata sul fianco sinistro, delle coperte che mi avvolgevano, e mi dicevo accidenti, questa cosa che ho pensato è davvero bella, adesso sto dormendo ma la tengo presente, la tengo presente così non appena mi sveglio la scrivo subito, non ho nemmeno il tempo di aspettare che si avvii il computer e che carichi i programmi, no no, è pericoloso, ci vuole troppo tempo, prendo la prima penna che mi capita, anzi no la stilografica che scrive più veloce, e la fermo subito su un pezzetto di carta così non me la dimentico, non me la devo dimenticare. Era un pensiero terso e cristallino, tutto era perfettamente a fuoco come un diaframma 22 in una mattinata di pieno sole dopo la bora, ché la bora è gelida e spietata ma se hai pazienza, resisti e stringi i denti, poi quando se ne va ti regala certe mattinate terse che da Trieste ti sembra di vedere pure il Monviso. Ma sto divagando e non devo andare fuori tema. Dicevo, dunque, il pensiero terso. Ero soddisfatta di me stessa per quanto fosse incisivo e puro quel pensiero, io che con le parole ci lavoro eppure ho sempre paura di non saperne sfruttare tutte le potenzialità, di non essere capace di pescare dal sacco quelle giuste, quelle che veramente distillano l’essenza limpida di quel che mi galleggia in testa, senza adulterarla con sostantivi o predicati superflui o fuorvianti, io che ho paura che le parole non siano veramente mie. E mentre ero lì, nel dormiveglia, in attesa di transitare da un territorio all’altro come un autotrasportatore che fa dogana, avevo ben presenti le parole di quel pensiero, me l’ero scandite più volte per non scordarle, mi dicevo figurati, certo che te le ricordi, ripetile ancora una volta così quando ti svegli le fissi bene, in fondo sono anche poche, poche ma perfette, brava, ripetile ancora, ecco così, ora è sicuro che non te le scordi, no, dico, come puoi ancora scordartele? Non solo te le sei ripetute, ma ne hai preso coscienza, sono dentro di te, quindi non le cancelli più. In quel momento le parole erano veramente mie.
Chissà che cosa ho pensato. Ero stata proprio brava. Peccato.

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Rovesci a carattere temporalesco

Quando piove nel cuore il torrente si ingrossa. Rompe gli argini. Si riversa nel cervello, da lì produce un impulso che senza incontrare sbarramenti lungo i nervi scende ai polpastrelli, si propaga alla tastiera, colpisce lettere spazi virgole punti e scolpisce parole verbi avverbi aggettivi, poi rimbalza tornando ai polpastrelli e devia il suo corso verso il tasto sinistro del mouse, trova una via d’uscita lungo il filo, nel cui stretto canale acquista velocità e si abbatte sul cursore spostandolo inesorabilmente verso il pulsante Invia che cede sotto la pressione dell’onda.
L’onda fa quello che deve fare. Dopo, camminando sopra quel che rimane, si raccolgono come capita lettere sparse e pezzi di parole, grovigli di punti interrogativi, avverbi semisepolti sotto cumuli di virgole. Alcuni sono rotti ma si possono riaggiustare, ripulendoli un po’ torneranno come nuovi. Serviranno magari a costruire altre frasi, a dare corpo a nuovi pensieri, a ricomporsi in quadri meteorologici forse un po’ meno perturbati.

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Terra di mezzo

Sono sempre stata troppo pigra per alzarmi al mattino presto a meno di non esserne costretta, ma ogni volta che devo obbedire a qualche piccola autocoercizione per smaltire i miei carichi di lavoro non posso dire che mi dispiaccia trovarmi sospesa in quella terra di mezzo che non è più notte ma non è ancora mattina. Forse è così che hanno bisogno di essere i pensieri in quel momento, sospesi anche loro fra qualcosa che non è più sonno ma non è nemmeno veglia lucida. È lì, quando l’odore morbido del primo caffè sale a dissolvere il sapore del sonno tra bocca e narici, che le mie frasi si cristallizzano, le dita si muovono agili sui tasti cercando di non fare rumore per non disturbare i meccanismi del pensiero che ripartono lentamente e lavoro quasi senza accorgermi di esistere.
C’è una perfezione silenziosa in quella specie di anticamera temporale, quasi che l’essenza dell’intero giorno sublimi in una momentanea assenza di tempo e di interferenze e che coglierla dia una ragione a tutto quel che viene dopo, quando il tempo riprende a scorrere e diventa anche quello degli altri.

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Repetita iuvant

«Ma insomma, cos’è che ha il tuo telefono che se provo a chiamarti fa “pit-pit-pit”?», sbotta mia madre, lamentando che non riesce a contattarmi al cellulare.
Controllo il mio telefono, è tutto a posto. Controllo il suo, ha la SIM sospesa perché non la ricarica da oltre un anno. Le compro 5 euro di ricarica e la riattivo.
«Avevi la SIM sospesa, per questo non riuscivi a chiamarmi.»
«Sì, lo so, mi avevano avvisata con un messaggio», risponde lei.
«E se lo sapevi perché non l’hai ricaricata prima?»
«Di solito mi avvisavano sempre tre o quattro volte prima di sospenderla, perché mi hanno avvisata una volta sola?»

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La ricetta del gelato

– Mi scusi signorina, lei sa per caso quando passa l’autobus per B.?
– Non ne ho idea. Deve andare a B.?
– È da tanto che aspetto, ma da questa fermata non è passato ancora niente. E questi orari sono appesi così in alto… Lei riesce a leggerli? A che ora passa il prossimo?
– Ha ragione, quasi non arrivo a leggerli nemmeno io. Mi faccia vedere… dunque, qui dice che ne passa uno alle 19:10 ma solo nei giorni feriali, quindi non oggi. Da quel che vedo mi sa che oggi non c’è più nulla.
– Eppure mi avevano assicurato che c’era…
– Forse si sono confusi. Venga con me, le do un passaggio, mi dia pure la borsa della spesa.
– Le pago la benzina!
– Neanche per idea. Solo, se non le dispiace, ho appena fatto la spesa anch’io e vorrei fare una rapida sosta a casa per mettere una cosa in freezer. Abito qui vicino, è lungo la strada.
– Grazie, tesoro. Faccia con comodo, io l’aspetto in auto. Mi dispiace darle questo disturbo!
– Nessun disturbo. E poi uno come fa a sapere quando passa l’autobus se appendono gli orari dove nemmeno li si vede?
– Si figuri che io sono un metro e quarantanove. Quand’ero giovane ero più alta, ma ora che sono vecchia sono diventata piccola! Tutti mi danno della novantenne.
– Lei non sembra una novantenne, signora. Chi le dice questo?
– Beh, tutti. Me ne danno ottantacinque-novanta, invece ne ho settantadue. Proprio oggi.
– Davvero oggi è il suo compleanno? Auguri!
– Grazie cara, ma io sono testimone di Geova e noi non festeggiamo i compleanni. Apprezzo il pensiero, però.
– Ecco, sono arrivata. Mi può aspettare solo un minuto? Salgo a mettere quella cosa in freezer e scendo subito, è questione di un attimo.

– Cos’aveva da mettere in freezer, signorina? I gelati, per caso?
– Sì! Mi ero già fermata per un’altra commissione e con questo caldo temevo si sciogliessero.
– Se vuole le do io una bella ricetta del gelato fatto in casa.
– Grazie! Lei lo fa spesso?
– Lo facevo quando lavoravo come cuoca. Purtroppo non lo posso più mangiare per via del diabete.
– Mi dispiace.
– Oggi ho fatto quattro insuline. Stamattina avevo 192 di glicemia. Ah ah! Faccio sempre allarmare il medico con questa glicemia, ma so che nel corso della giornata un po’ si abbassa.
– Allora dovrà stare molto attenta a quello che mangia…
– Eh, dovrei. Faccio come posso. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma è il comune che mi porta da mangiare. E quello che cucinano mangio. Ma non è male.
– Il comune?
– Quando c’era mio figlio andava meglio. Morendo mio figlio, sono rimasta con la mia pensione. Sa, io prendo quattrocentotredici euro al mese, duecento se ne vanno solo per l’affitto, e poi c’è l’elettricità.
– L’elettricità.
– Ma quanto costa l’elettricità! Centoundici euro l’ultima bolletta, e meno male che non ho la televisione, ché non l’ho proprio voluta!
– …
– Anche se mio figlio voleva farmela comprare. Era X. Si ricorda?
– …
– Chiedo se lo sa perché all’epoca la notizia l’avevano pubblicata sul giornale. È successo ad agosto, due anni fa. Si è buttato sotto il treno per via di una ragazza. Una delusione d’amore.
– …
– Ma non parliamo di cose tristi. Le spiego la ricetta del gelato. Allora, lei prende quattro tuorli d’uovo, cinque o sei cucchiai di zucchero, un bel cucchiaio di cacao in polvere…

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A parlar di bicicletta e vita passata

Distratta da altre cose, mi sono accorta solo oggi con dispiacere che poco tempo fa è morto questo signore. Lui e mio padre si conoscevano dalla gioventù, e ricordo di averlo incontrato qualche volta per strada quando accompagnavo mio padre al suo paese. «Toh, ecco l’Astrua!», diceva papà. Chiacchieravano per un po’, sempre in dialetto, aggiornandosi l’un l’altro sulle proprie vite.
Ci sapeva fare con la bicicletta, questo signore. Quando si congedavano, mio padre non perdeva l’occasione per raccontarmi di tappe, scalate, inseguimenti; io ascoltavo, poi puntualmente dimenticavo e confondevo date e nomi, perché da ragazzina poco e niente m’importava di ciclismo, e se qualcuno mi avesse detto che un giorno percorrere salite con una bici da corsa mi avrebbe dato tanta soddisfazione gli avrei riso in faccia.
Così mi piace pensare che lui e mio padre si siano rivisti da qualche parte, e in una bella giornata come oggi siano seduti a un tavolino all’aperto a parlar di bicicletta e vita passata, forse anche della guerra. Chissà, magari passa di lì anche Coppi e si unisce alla conversazione. Mio padre ne sarebbe contentissimo.

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